Ho da poco terminato il libro La mia Australia, scritto da Sally Morgan. Narra della stolen generation, o forse dovremmo parlare delle stolen generations, cioè del sistematico annullamento d'identità culturale e personale perpetrato in Australia a partire dalla seconda metà del 1800 e durato per circa un secolo ad opera del governo australiano e delle chiese cristiane ai danni delle nazioni aborigene.
Stolen generation, cioè generazione rubata. A partire dal nome di ciascun bambino, al quale veniva tolto il nome aborigeno per sostituirlo con uno occidentale. Per passare dall'allontanamento forzato dei bambini dalle famiglie per essere "educati" presso istituti, con ben poche possibilità di poter rivedere i genitori -anche a seconda del colore più o meno scuro della pelle i bambini potevano o no mantenere saltuari rapporti con le famiglie d'origine, inutile dire dell'impossibilità per quelli neri-. Per arrivare fino alla quasi pianificata contaminazione delle popolazioni aborigene tramite una miriade di accoppiamenti con uomini europei i cui figli non venivano comunque riconosciuti.
Il tutto in un paese dove per decenni i nativi potevano, per la modica cifra di 5 scellini all'anno, passare di proprietà da un bianco all'altro.
Il pregio del romanzo è che Sally Morgan non ha fatto un resoconto storico del fenomeno ma bensì ha cercato tra molte difficoltà di ricostruire la storia della sua famiglia. Per buona metà del libro quasi si stenta a credere quanto letto sulla copertina, che quello sia un libro sulla stolen generation. E forse questo dà ancor di più valenza alla storia: generazioni talmente private di tutto, dai sentimenti all'identità personale e di nazione che anche all'interno delle stesse famiglie si sono creati dei muri difficili anche solo da scalfire.
Un difficile dialogo intergenerazionale per una delle più immani tragedie causate dalla civilizzazione occidentale.
Stolen generation, cioè generazione rubata. A partire dal nome di ciascun bambino, al quale veniva tolto il nome aborigeno per sostituirlo con uno occidentale. Per passare dall'allontanamento forzato dei bambini dalle famiglie per essere "educati" presso istituti, con ben poche possibilità di poter rivedere i genitori -anche a seconda del colore più o meno scuro della pelle i bambini potevano o no mantenere saltuari rapporti con le famiglie d'origine, inutile dire dell'impossibilità per quelli neri-. Per arrivare fino alla quasi pianificata contaminazione delle popolazioni aborigene tramite una miriade di accoppiamenti con uomini europei i cui figli non venivano comunque riconosciuti.
Il tutto in un paese dove per decenni i nativi potevano, per la modica cifra di 5 scellini all'anno, passare di proprietà da un bianco all'altro.
Il pregio del romanzo è che Sally Morgan non ha fatto un resoconto storico del fenomeno ma bensì ha cercato tra molte difficoltà di ricostruire la storia della sua famiglia. Per buona metà del libro quasi si stenta a credere quanto letto sulla copertina, che quello sia un libro sulla stolen generation. E forse questo dà ancor di più valenza alla storia: generazioni talmente private di tutto, dai sentimenti all'identità personale e di nazione che anche all'interno delle stesse famiglie si sono creati dei muri difficili anche solo da scalfire.
Un difficile dialogo intergenerazionale per una delle più immani tragedie causate dalla civilizzazione occidentale.
2 commenti:
Una di quelle tragedie di cui si parla sempre troppo poco...
Più che di tragedia parlerei di genocidio.
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